Boom dell’equity crowdfunding in Italia nel 2016. Come progredire ancora?

L’equity crowdfunding nel 2016 ha cominciato a girare. Ma si possono fare ulteriori grandi passi avanti puntando sull’ampliamento delle imprese “finanziabili”

 

Equity crowdfunding italia primi 5 mesi 2016

L’inizio del 2016 segna un progresso notevole per l’equity crowdfunding italiano e lo ha riferito anche MF Milano Finanza in edicola sabato 4 giugno, che ha riportato i dati della nostra infografica.

Nei primi 5 mesi del 2016, infatti, sono state finanziate 8 società rispetto alle 7 di tutto il 2015 e alle 4 del 2014. Il tutto per un totale di poco più di 5,5 milioni di euro raccolti dalle piattaforme da inizio 2014, di cui 2,49 milioni soltanto quest’anno, che corrispondono a un +40% rispetto ai 1,76 di tutto il 2015.

Le ragione principale di questa performance crediamo risieda nel numero di piattaforme autorizzate le cui prime campagne di successo si sono concluse proprio quest’anno. Si tratta di WeAreStarting, MuumLab, Opstart ed Equinvest, le cui 4 campagne hanno raccolto €722k. Le altre 4 sono riferite a Starsup (che ne ha chiuse due per un totale di €467k), Tip.Ventures (una per e300k) e Next Equity, che ha fatto il botto chiudendo la sua seconda campagna con il record di raccolta: €1 milione.

Dobbiamo poi considerare che sono già virtualmente chiuse (sono attualmente in overfunding) altre due campagne: la prima di Mamacrowd (ha raccolto €238k fino ad ora) e la seconda di successo di Crowdfundme (ha raccolto fino ad ora €90k).

Ma c’è anche un altro dato interessante. Il numero totale di investitori (256) è già quasi pari al 2015 (263). Sebbene non abbiamo dati per poterlo dimostrare, riteniamo plausibile che non siano del tutto duplicati e che, dunque, il numero di persone che ha investito in imprese innovative attraverso il crowdfunding sia decisamente aumentato.

Oltretutto, come sottolinea BeBeez.it, questo avviene nonostante il fatto che le novità apportate da Consob al regolamento non abbiano ancora dispiegato il loro potenziale. Come noto, infatti, il nuovo regolamento dello scorso febbraio renderà più semplice aderire alle proposte pubblicate da startup e pmi innovative sui vari portali. In particolare, le verifiche di appropriatezza dell’investimento rispetto alle conoscenze e all’esperienza dell’investitore potranno d’ora in poi essere effettuate dagli stessi gestori dei portali, purché risultino dotati di requisiti adeguati. Con ciò i gestori possono subentrare nel ruolo finora svolto dalle banche.

Questo non è ancora avvenuto perché le piattaforme devono comunicare il cambiamento alla Consob, che a sua volta ha 60 giorni di tempo per dare il suo via libera.

Come progredire ulteriormente?

Rendere più agevole investire

Sicuramente, rendere più agevole l’investimento richiamerà più investitori, soprattutto medi o piccoli. A questo fine, e per questo target, oltre alle già citate nuove norme del regolamento Consob, potrebbe sicuramente contribuire il pagamento con carta di credito. In Italia per ora, a parte MuumLab (che però non abbiamo avuto modo di vedere all’opera), non lo fa nessuno. Ci sono in effetti alcune difficoltà, soprattutto dovute al fatto che affinché l’ordine sia perfezionato, il pagamento deve arrivare direttamente sul conto gestito dall’intermediario finanziario e non può quindi essere detenuto momentaneamente in un “escrow account” diverso (p.es. quello del sistema di pagamento). Questioni molto tecniche per le quali gli attori coinvolti sono le piattaforme e i loro legali, le banche, la Consob e i sistemi di pagamento. A loro dunque l’ardua sentenza.

Allargare la base delle società che possono accedere all’ECF

Ci siamo sempre chiesti, e continuiamo a chiederci, perché mai solo business che propongono innovazioni tecnologiche e, quindi, molto rischiosi siano ammessi alle piattaforme di equity crowdfunding. In UK, ma anche in Francia, in Spagna, in Germania, in Olanda, insomma in tutta, ma proprio tutta l’Europa (per non parlare del resto del mondo) questo limite di legge NON ESISTE. In questi paesi, oltre a chi offre innovazione tecnologica, si finanziano in modo partecipativo, birrifici, catene di bar, palestre, produttori di miele, organizzatori di eventi (tra l’altro una società italiana!), immobili da costruire o da ristrutturare eccetera, eccetera… In Italia non possono.

In questi paesi, la scelta non viene fatta dal legislatore, ma dagli investitori che premiano i business potenzialmente più redditizi, non quelli più tecnologicamente innovativi.

Ora, se proprio non possiamo fare a meno del dirigismo governativo, almeno proviamo a concedere spazio ai prodotti e servizi per i quali ci viene riconosciuta l’eccellenza. Noi siamo famosi nel mondo per almeno quattro o cinque cose:

  • Moda
  • Design
  • Cibo
  • Beni culturali
  • Turismo

Consentire a imprese che operano a vario titolo in questi settori, consentirebbe da un lato di valorizzarli ulteriormente premiando l’imprenditorialità e l’esperienza e, dall’altro, di proporre a chi investe di prendere in considerazione modelli di business molto chiari ed evidente e, probabilmente, a minor rischio. E si tratta di settori in cui siamo riconosciuti nel mondo, quindi verrebbero attratti investitori… da tutto il mondo.

Ma vogliamo chiarire bene. Quando diciamo “imprese che operano a vario titolo”, intendiamo riferirci a qualsiasi tipo di attività che abbia per oggetto il settore.

Facciamo qualche esempio a caso.

Un bene culturale può anche essere un immobile che, se ristrutturato e poi gestito, può diventare un’impresa profittevole. Non vediamo perché, i fondi per la ristrutturazione, non possano essere raccolti on line dalla società che lo metterà a reddito consentendo a molti di diventarne soci.

Un ristoratore italiano che ha già aperto una catena di due o tre ristoranti, potrebbe voler cercare fondi per aprirne all’estero, magari in franchising. Perché non dare la possibilità a tanti di diventarne soci e consentire così all’imprenditore di portare il verbo della cucina italiana all’estero (invece di farlo fare ai non Italiani)?

Un designer ha realizzato una serie di complementi d’arredo che magari ha avuto un ottimo successo, ma circoscritto, perché non ha i fondi per promuoverlo, produrne di più e abbassarne i costi di produzione. Attraverso l’equity crowdfunding potrebbe trovare i fondi per finanziare una campagna commerciale più ampia e la conseguente produzione.

Conclusioni

Ce ne sarebbero moltissimi di esempi, ma ci auguriamo che il concetto sia chiaro. In altre parole suggeriamo al MISE e a tutti coloro che hanno voce in capitolo, di spostare radicalmente il focus dell’attuale impianto normativo, passando dal concetto di imprese innovative a quello di Made in Italy o, almeno, a quello di imprese ad alta potenzialità di crescita.

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